Sul luogo delle conoscenze implicite
Sul luogo delle conoscenze implicite

Sul luogo delle conoscenze implicite

ID
27
Date
Nov 18, 2025
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Articolo
Riflessione

Prologo: un laboratorio, una stampante, una domanda inattesa

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Qualche sera fa ero nel mio piccolo laboratorio. Una stampante smontata sul tavolo, un modulo wifi da recuperare, un progetto elettronico in costruzione. Tutto normale. Tutto automatico nel mio cervello. L'odore dell’inchiostro, le viti raccolte in un tappo, il gesto rapido di aprire il telaio, seguire il percorso dei cavi, individuare esattamente dove si trova il componente che mi serve.
A un certo punto mi è sorto un dubbio semplice e inquietante: perché per me è così ovvio farlo? Perché mi viene naturale pensare di prendere un oggetto complesso, aprirlo, leggerlo come se avesse una grammatica chiara e riconoscibile, decidere cosa tenere e cosa riciclare, e poi costruirci qualcosa?
La risposta è arrivata da sola. L’ho fatto centinaia di volte. Da bambino smontavo giocattoli per capire cosa c’era dentro. Non lo facevo "per imparare", ma per curiosità, per necessità espressiva, per gioco. Iterazione dopo iterazione, senza teoria, senza spiegazioni, senza che nessuno mi dicesse che quel gesto aveva un nome. E oggi quel sapere è diventato “invisibile” proprio perché è mio.
Questa esperienza non riguarda solo me. Ognuno di noi porta un archivio di competenze implicite: suonare uno strumento al punto da riconoscere una nota stonata al volo, leggere il linguaggio non verbale in una conversazione senza sapere come lo si fa, orientarsi in una città sconosciuta seguendo sensazioni più che mappe, leggere il meteo osservando vento e nuvole.
Sono abilità che non vivono nella memoria dichiarativa ma in quella che Michael Polanyi chiamava “tacit knowledge”, un sapere che arriva attraverso sensazioni ed intuizioni. Eppure spesso lo ignoriamo, lo consideriamo ovvio, spesso lo svalutiamo.
Ed è proprio da questa domanda, nata in laboratorio davanti a una stampante disassemblata, che si apre il tema di questo articolo: il luogo delle conoscenze implicite.

La mappa delle conoscenze: un modello essenziale

Immaginare la conoscenza come uno spazio quadripartito è utile per orientarsi. Non è un modello accademico, ma una bussola pragmatica.
Ci sono le cose che sappiamo di sapere. Le competenze esplicite, dichiarabili, quelle che possiamo elencare in un curriculum. Suonare uno strumento. Parlare una lingua. Scrivere codice.
Ci sono le cose che sappiamo di non sapere. Le zone in cui riconosciamo il vuoto: la fisica quantistica per chi non l’ha mai studiata, la contabilità per chi non l’ha mai praticata, tutto ciò che percepiamo distante o intimidatorio.
Poi esistono le cose che non sappiamo di non sapere, il dominio dell’ignoto totale. È la frontiera dell’esplorazione, delle scoperte, dell’imprevisto. Spazio necessario ma difficile da mappare.
Infine, il quadrante più interessante: le cose che non sappiamo di sapere. È il territorio delle conoscenze implicite. Quelle che vivono nelle mani, nei riflessi, nei modelli interiori. Quelle che usiamo senza pensarci. Quelle che raramente riconosciamo come valore.

Il sapere che non parla: la dimensione implicita

 
Modello di Polanyi in versione schematica e il flusso di informazioni
Modello di Polanyi in versione schematica e il flusso di informazioni
 
La psicologia e le neuroscienze distinguono da tempo tra memoria esplicita e memoria implicita. È una distinzione fondamentale. La memoria esplicita è narrativa, accessibile, dichiarabile. La memoria implicita invece non è fatta di racconti, ma di schemi. È un sapere incorporato.
Michael Polanyi, nel celebre concetto di tacit knowledge, scriveva che “sappiamo più di quanto possiamo dire”. È precisamente ciò che accade quando cucini un piatto che hai visto preparare mille volte, quando il corpo esegue la ricetta prima della mente. Non stai ricordando un procedimento, stai esprimendo un sapere interiorizzato.
Le neuroscienze confermano che gran parte delle nostre decisioni e percezioni avvengono su questa soglia pre‑riflessiva. Le memorie implicite determinano ciò che consideriamo sicuro o pericoloso, familiare o estraneo, possibile o proibito. E la cosa sorprendente è che non agiscono solo nella sfera tecnica o motoria, ma anche in quella emotiva.
La fiducia verso qualcuno, la diffidenza che proviamo a pelle, la sensazione che un contesto sia favorevole o ostile, non nascono da ragionamenti coscienti. Sono il risultato di anni di apprendimento invisibile, sedimentato nel corpo e nel sistema nervoso.
Capire questo significa riconoscere che le nostre convinzioni più radicate non sempre vengono da ciò che ricordiamo, ma da ciò che il nostro organismo ha vissuto e interiorizzato.

Le competenze che la scuola non vede

C’è un paradosso culturale importante. L’intero sistema scolastico valuta solo le conoscenze esplicite. Studia, ripeti, dimostra, rispondi. È un sistema basato sulla dichiarabilità. Tutto ciò che non si può dimostrare a parole, tutto ciò che vive nell’azione, nel corpo, nella manualità, nel problem solving intuitivo, non entra nella valutazione.
Il risultato è che costruiamo il nostro senso di valore personale soprattutto su ciò che possiamo mostrare in modo esplicito: titoli, voti, certificazioni. E mettiamo ai margini tutto ciò che sappiamo senza saperlo. Le capacità che emergono solo nel fare, nel costruire, nel riparare, nel creare.
È una perdita culturale enorme, perché molte delle abilità che rendono una persona efficace, resiliente, creativa, non passano attraverso lezioni frontali. Vivono nelle storie formative, negli ambienti in cui siamo cresciuti, nelle esperienze che ci hanno modellato.
Eppure continuiamo a credere che il valore sia ciò che si può verbalizzare. Tutto il resto diventa sfondo, rumore, normalità. Invece è spesso proprio lì che si trova la parte più autentica e meno replicabile del nostro sapere.

Il valore nascosto: riconoscere ciò che consideriamo ovvio

 
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Scoprire e mappare le proprie conoscenze implicite richiede un gesto controintuitivo: osservare ciò che facciamo in automatico. Spostare l’attenzione dal nuovo a ciò che già esiste in noi.
A volte basta domandarsi cosa gli altri ci chiedono spesso. Quali sono le cose che abbiamo “allenato” senza pensare che fosse preparazione. Quali problemi risolviamo apparentemente senza fatica. Quali situazioni affrontiamo con naturalezza mentre altri si bloccano. Oppure notare quando, in un gruppo, contesto o situazione, siamo quelli che vedono la soluzione prima degli altri, o che intuiscono il passo successivo senza pensarci.
Le conoscenze implicite hanno questa caratteristica: diventano invisibili proprio perché sono nostre. E ogni volta che le ignoriamo, ci raccontiamo una storia distorta sul nostro valore.
Ma riconoscerle non significa solo valorizzarci. Significa anche accorgerci dei limiti che ci portiamo dentro. Perché le memorie implicite non riguardano solo il talento. Riguardano anche la paura. Il senso di inadeguatezza. Le convinzioni interiorizzate su cosa possiamo o non possiamo diventare.
La sfida è doppia: vedere il potenziale che sottovalutiamo e interrogare le verità interiori che ci frenano.

Il gesto di tornare al luogo implicito

Riconoscere le proprie conoscenze implicite non è un esercizio teorico. È un gesto di consapevolezza. Un modo di costruire un rapporto più onesto con se stessi.
Non si tratta di fare un inventario esaustivo, né di tradurre tutto in linguaggio formale. Si tratta di tornare nei luoghi dove abbiamo imparato senza accorgercene: l’infanzia, i giochi, le esperienze informali, le sfide pratiche che abbiamo affrontato per necessità o per curiosità.
In quei luoghi c’è una parte della nostra identità cognitiva che nessun titolo potrà mai sostituire. Un sapere incorporato, spesso più profondo delle conoscenze che studiamo volontariamente.
Forse la crescita personale non consiste solo nell’acquisire nuove competenze esplicite, ma nel recuperare quelle che abbiamo interiorizzato e che non abbiamo mai riconosciuto. Dare loro un nome non per mostrarle, ma per integrarle. Riconoscere il loro ruolo nella nostra vita, nelle nostre scelte, nei nostri modelli di pensiero.

Un circuito che si chiude

Ogni volta che prendo in mano un saldatore e riparo qualcosa, non sto solo sistemando un oggetto. Sto incontrando una parte di me che conosce il mondo attraverso il fare, attraverso la manualità, attraverso la curiosità infantile che non ha mai smesso di esplorare.
In quel gesto c’è una competenza. Ma c’è anche una storia. Una memoria implicita che ancora oggi mi guida, mi protegge, mi definisce.
Il luogo delle conoscenze implicite non è un territorio marginale. È una parte essenziale della nostra identità. Renderlo visibile non serve a creare un elenco di abilità da mettere nel curriculum, ma a riconoscere la profondità del nostro percorso. Ci permette di capire chi siamo al di là di ciò che sappiamo dichiarare.
 
 
 
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