Un amico mi ha scritto che guardando i miei ultimi contenuti online, sembro una persona triste. Quasi non sembro io. E aggiunge poco dopo: “ci sentiamo tutti i giorni, so che non è vero. Conosco l'entusiasmo e l'energia che ti contraddistinguono."
Ha ragione, e ha torto allo stesso tempo. O meglio: ha ragione su qualcosa che non mi ero fermato a pensare.
Il paradosso del creatore isolato
Mentre il mio ultimo progetto falliva, ne stavo lanciando altri tre. Nel frattempo sto costruendo in laboratorio, cerco collaborazioni nel mondo dell'innovazione ambientale, programmo il prossimo grande viaggio, sviluppo idee di storytelling che so essere ancora lontane nel tempo. Eppure, a quanto pare, dall'esterno sembro triste.
Il problema non è cosa faccio, ma quando e come lo racconto.
Mi sono reso conto di scrivere i miei contenuti quasi esclusivamente di sera, quando sono stanco, quando qualcosa è andato fuori programma e improvvisamente ho quel tempo in più. Non è tempo che dedico consapevolmente alla creazione, non in questo momento ancora: è tempo che riempio. E in quei momenti la default mode network è iperattiva, la stanchezza cognitiva della giornata pesa, il calo fisiologico di dopamina e glutammato si fa sentire. E tutto questo si riflette in un emozione che non rappresenta tutto me stesso. E’ come la fotografia di un singolo momento.
La maggior parte delle volte, scrivo per me stesso, in un momento in cui il mio stato neurofisiologico non rappresenta totalmente chi sono davvero.
L'errore del comunicatore solitario
Qui la questione diventa interessante a livello di comunicazione. Io conosco il contesto: so cosa ho fatto durante la giornata, so quali progetti stanno avanzando, so che quella mail andata male è solo una delle tante variabili in gioco. Ma chi legge dall'esterno non ha questo contesto. Vede solo il frammento che ho scelto di condividere, spesso quello che “stacca” dalla mia normalità, ciò che si differenzia.
E la mia normalità, a pensarci bene, è già di per sé fuori dal comune: lancio progetti digitali, costruisco in laboratorio, esploro collaborazioni scientifiche, cerco il mio posto nel mondo.
Tutto questo è il mio standard. Ciò che il cervello dà per scontato per via dell'adattamento edonistico e di contesto interno.
Quindi cosa cattura la mia attenzione quando scrivo? Di nuovo, gli elementi che staccano da questa normalità già anomala: la stanchezza, la delusione, una chiamata che non è andata come speravo, un'opportunità che si chiude.
Non sto davvero mettendo il mio punto di vista su quella cosa. Sto solo registrando l'anomalia emotiva del momento.
L'antifragilità come principio di crescita
Potrei dire: "Ok, ho sbagliato. Farò più attenzione." Ma sarebbe sprecato. Questa critica è un dono enorme, e voglio usarla per crescere, davvero.
Il punto dei contenuti, almeno per me, non è solo raccontare. È portare valore attraverso quel racconto: una storia, ispirazione, energia. Raccontare le cose che mi contraddistinguono, che rendono me, me appunto. E mi rendo conto che negli ultimi mesi tutto questo è mancato.
Sono tornato a casa dai miei, e stare da solo in un piccolo paesino di provincia, limita inevitabilmente una serie di fattori fisiologici e sociali. Ma non è una scusa. È un vincolo da trasformare in opportunità.
Da oggi cambia il modo in cui penso ai miei contenuti:
- Non più messaggi a me stesso scritti nei momenti di stanchezza
- Non più frammenti emotivi senza contesto
- Non più dimenticanza del ricevente come persona con una prospettiva diversa dalla mia
Voglio dedicare tempo reale, consapevole, alla preparazione di ciò che condivido. Non riempire spazi vuoti, ma creare spazi pieni.
Cosa succederà adesso?
Nelle prossime settimane voglio riportare nei contenuti ciò che vivo davvero: l'energia di costruire progetti, la curiosità della ricerca scientifica, l'eccitazione della prossima avventura. Non nascondendo le difficoltà, ma contestualizzandole dentro il movimento più grande che è la mia vita.
Perché il punto non è sembrare felice. È essere onesto in modo completo, non parziale.
E forse questa riflessione, nata da un rimprovero affettuoso, è già il primo passo in quella direzione.
Grazie Nat
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