C'è un momento, sulla parete, in cui tutto si ferma. La mente calcola, misura, valuta. Il corpo aspetta. E tu sei appeso tra queste due forze, chiedendoti quale delle due merita più fiducia.
Non ho fatto tantissima arrampicata su roccia nella mia vita. Eppure fin dal primo momento sono stato affascinato da quel mondo, da quella verticalità che ti chiede tutto: forza, tecnica, presenza. La prima volta che ho potuto arrampicare davvero è stato elettrizzante. E da quella esperienza, ormai quasi due anni fa, mi porto dietro una lezione che continua a riemergere nei momenti più inaspettati della vita.
La parete e la presa invisibile
Sono stato fortunato ad avere Leonardo come mentore. Non mi ha insegnato solo la tecnica: come muoversi, dove posizionare i rinvii, quali appigli scegliere. Mi ha trasmesso qualcosa di più profondo. Ricordo un pomeriggio a Rocca Pendice, vicino ai Colli Euganei. Ero in una posizione scomoda, aggrappato alla roccia con la mano sinistra, il piede destro sospeso nel vuoto. Leonardo, da terra, mi indicava una fessura dove spingere, un appiglio più in alto che io non riuscivo a vedere.
"Leonardo, qui perdo la presa e cado," dissi.
"Primo, se cadi ti tengo io," rispose. Aveva la corda di sicurezza, stavo facendo da secondo. Avrei potuto cadere al massimo dieci centimetri. Ma non ero mai caduto prima. E la paura era reale, viscerale.
Poi Leonardo urlò dal basso: "Fidati del corpo. Metti il piede, spingi, aggrappati. Anche se non vedi la presa, anche se non capisci il movimento, fidati del corpo. Ascoltalo. Non serve che tu capisca: serve che tu prenda."
Non so cosa scattò in quel momento. Feci un respiro profondo, mi guardai attorno. "Ok, posso farcela." Spinsi il piede destro nella fessura, mi sollevai di pochi centimetri. La mano destra sentì la roccia, trovò l'appiglio invisibile. Infilo le dita, faccio trazione, spingo col piede sinistro. E da lì in poi fu un flusso continuo: presa dopo presa, piede dopo piede, spinta dopo spinta. Il corpo andava quasi da solo.
Fu uno dei primi momenti di flow fisico che abbia mai sperimentato al limite della mia esperienza. E quando tornai a terra, realizzai qualcosa di fondamentale. Io, che adoro pensare, analizzare, capire tutto quanto, dovevo davvero imparare a fidarmi. Fidarmi del mio corpo, di quello che sento, delle esperienze interne, non solo di ciò che riesco a comprendere razionalmente.
La corda e il salto
Quella lezione è riemersa con forza un anno fa, a novembre 2024, quando sono partito per il Guatemala in uno dei momenti peggiori della mia vita. La mente diceva di non farlo. Tante persone intorno a me dicevano di non partire. Ma il corpo diceva il contrario. Il corpo diceva: se non lo fai adesso, rischi che questa cosa ti blocchi per sempre.
In quel momento ho ricordato l'arrampicata. Come sulla parete, mi sono fidato del mio corpo e ho fatto quel tentativo, sapendo che dall'altro lato, dopo quella spinta, c'era una presa. Una presa che non vedevo, ma che era lì. Dovevo solo sentirla, non vederla.
Lo sport in due
L'arrampicata mi ha insegnato anche altro. Non è uno sport che si fa da soli. È uno sport di squadra, anzi, di team. Chi sta a terra deve guardare chi scala, anticiparne i movimenti, dare corda, tirare, tenere la tensione, prestare attenzione a ogni dettaglio. Chi scala deve dare all'altra persona una fiducia immensa. Perché sì, puoi continuare a controllare tutto, a dire "tira la corda, metti in tensione", ma così ti stai prendendo pezzi di arrampicata che non sono tuoi. È la tua vita, ci sta essere preoccupati. Ma ho imparato da Leonardo che, anche se ero io a scalare, non ero io a tenere la corda.
Quello che dovevo fare era fidarmi della sua capacità, della sua esperienza. E se avevo bisogno di aggiustamenti, comunicarli nella maniera più efficace e veloce possibile. Non puoi discutere per quindici minuti quando sei venticinque metri sopra qualcuno, appeso a una parete.
Fiducia nel corpo. Fiducia nel partner. Comunicazione puntuale e precisa.
La presa che non serve vedere
In tanti momenti della vita stiamo facendo arrampicata, da soli o in compagnia. E quello che ci serve, a volte, non è capire di più. È fidarci di più del nostro corpo.
C'è una presa lì sopra. Non la vedi, ma la senti. Non serve che tu la capisca. Serve che tu la prenda.
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