Un invito da Pirandello alla vera comunicazione
Tra i primissimi capitoli di Uno, nessuno e centomila, Pirandello scrive un passaggio che racchiude uno dei pensieri più ricchi dell'intera opera:
"Ma il guaio è che voi, caro mio, non saprete mai come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi, la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io, nell'accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d'intenderci; non ci siamo intesi affatto."
Queste righe esprimono una verità profonda che oggi le neuroscienze, la psicologia e gli studi sulla comunicazione confermano: noi non ci capiamo. O meglio, crediamo di capirci, ma raramente ci intendiamo davvero.
Le parole vuote e il problema dell'identità
Uno, nessuno e centomila è un romanzo sulla scoperta del sé, o meglio, sull'impossibilità di questa scoperta. Pirandello prova a rispondere alla domanda "chi sono io?" e invece di offrire una risposta dichiara: non lo so. Non come limite personale, ma come condizione universale. Nessuno lo sa.
Vitangelo Moscarda, il protagonista, è un personaggio complesso e sfaccettato come ognuno di noi. Crediamo di essere una persona, un unicum, ma ogni contesto, ogni situazione, ogni sguardo esterno ci vede in maniera diversa. Per questo siamo centomila, anche se nessuno di questi è realmente noi. È proprio su questa complessità che Moscarda afferma: "non ci siamo intesi affatto".
I limiti del linguaggio
Quando raccontiamo, o ancora meglio quando ci raccontiamo, non utilizziamo solo un linguaggio fatto di parole. I limiti del linguaggio sono i limiti stessi del mondo che possiamo esplorare, non tanto quello esterno quanto quello interno, quello umano. Nel linguaggio e nei suoi confini si innesta tutto: le storie che raccontiamo nascono per provare ad esprimere qualcosa che le parole da sole non riescono a contenere.
Le parole, come afferma Moscarda, sono vuote di per sé. Siamo noi a dare loro significato. Abbiamo costruito una serie di significati condivisi, di concetti legati a parole che dovrebbero essere uguali per tutti coloro che parlano una lingua. Se pronuncio "mela", questa parola di per sé non ha senso: siamo noi umani ad aver legato quella sequenza di suoni a quell'oggetto.
Ma nel tempo la mela è diventata anche concetto, non più solo frutto. Vedasi la Bibbia, altre culture, altri scritti. Il senso della parola non esiste intrinsecamente: noi glielo abbiamo dato, attribuito e poi astrattizzato. Abbiamo reso astratto qualcosa di concreto perché non ci bastava per esprimere ciò che abbiamo dentro, cose che non esistono materialmente.
Nel parlare, nel raccontare qualcosa, non racconto solo attraverso le parole. Nel mio cervello quelle parole hanno un senso specifico, sono legate a un'emozione, un colore, un'immagine, un pensiero che è mio e che attraverso il linguaggio provo a tradurre, a trascrivere, limitandolo inevitabilmente.
La riduzione del pensiero
Un pensiero tridimensionale, come un oggetto complesso, quando viene espresso a parole diventa inevitabilmente una proiezione ortogonale di quell'oggetto, non l'oggetto stesso. Questo è il concetto dei limiti del linguaggio.
Le neuroscienze lo confermano: l'attivazione dei circuiti del linguaggio è legata ad altre aree cerebrali. Nel parlare di un evento passato, il cervello attiva anche i ricordi veri e propri, il circuito della memoria visiva, le immagini, gli odori, i rumori. Posso provare a descrivere queste esperienze sensoriali ed emotive, ma non potrò mai trasferirle completamente nel linguaggio stesso.
Il senso personale delle parole
Quando raccontiamo o ascoltiamo, quando osserviamo qualcuno compiere un'azione, tutto è intriso del senso personale di chi parla o agisce. Il ruolo di un ascoltatore o comunicatore attento non è arrendersi a questa condizione, ma cercare di capire cosa si nasconde dietro le parole, qual è il senso che l'altra persona o quel contesto attribuisce a quelle espressioni.
La frase finale di Pirandello è potente: "Abbiamo creduto di intenderci, non ci siamo intesi affatto". Parliamo, ma nel farlo spesso non comunichiamo. Non prestiamo attenzione al fatto che i nostri ricordi, le nostre sensazioni, il nostro senso con cui riempiamo le parole diventano un limite se non ne siamo consapevoli.
Lo stesso vale al contrario: il senso che riempie le parole dell'altro diventa un ostacolo se non prestiamo attenzione. Parlare e comunicare sono due azioni diverse.
Dall'invito negativo alla pratica positiva
Il mio invito è: non parliamo. Prendo l'espressione negativa di Pirandello e la trasformo in qualcosa di costruttivo. Cerchiamo di non limitarci a parlare, cerchiamo di comunicare. Trasformiamo il semplice atto di riempire del nostro senso tanto le parole nostre quanto quelle altrui in vera comunicazione.
Comunicazione intesa come identificazione consapevole di un messaggio. Comunicazione come attenzione: voglio che tu capisca questa cosa e so che nel comunicartela la riempirò delle mie aspettative, dei miei pensieri, delle mie paure, delle mie emozioni. Ma farò tutto il possibile affinché quel messaggio arrivi a te.
Non possiamo applicare questo livello di attenzione in ogni istante della nostra vita. Ma nei momenti importanti, con le persone che contano, può fare davvero la differenza.
Le conseguenze pratiche
Saper comunicare significa sapersi esprimere. Sapersi esprimere significa sapersi portare nel mondo. Se non ci riusciamo, gli altri non ci capiranno. Le relazioni che costruiremo non saranno relazioni autentiche, dove siamo presenti come persone. Non sapremo raccontarci e queste relazioni risulteranno insoddisfacenti.
Lo stesso vale in ambito professionale: se non comunichiamo con attenzione al senso delle parole e delle frasi, tutto diventa più complesso. Potremmo sentire qualcuno senza veramente ascoltarlo e poi chiederci: mi hai detto questa cosa, ma cosa significa realmente?
Conclusione
Noi non parliamo.
Questo è l'invito: non parlare semplicemente, ma comunicare con intenzionalità e attenzione. Non sempre e non in ogni circostanza, perché a volte non serve. Ma quando serve, prestare attenzione fa la differenza.
Come ci ricorda Pirandello, possiamo usare la stessa lingua, le stesse parole, ma se non prestiamo attenzione al senso che ciascuno porta in quelle parole, avremo solo creduto di intenderci.
Non ci saremo intesi affatto.
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