(riflessione critica su proprietà, valore e design dei sistemi)
Rileggendo Antifragile di Nassim Nicholas Taleb, con occhi diversi, mi accorgo che il libro non è solo un trattato di teoria; è un coltello retorico. In certi passaggi taglia, semplifica, incide. È proprio questa lama a rendere il concetto di antifragilità estremamente memorabile: alcuni elementi del mondo, sotto stress, non solo resistono ma migliorano. Ogni concetto però ha molteplici chiavi di lettura e questa visione ha anche un costo. La semplificazione che sveglia l’intuizione può, al tempo stesso, appiattire fattori rilevanti che presi nel loro insieme (visione del sistema) possono ribaltare il senso di impatto positivo che Taleb lega all’antifragilità. Non contesto l’utilità dello stile affilato; contesto la sua egemonia. Se la tesi serve a spostare l’asse del pensiero, il saggio critico serve a rimettere sul tavolo ciò che l’affondo retorico ha tralasciato. Lo scopo di questa pagina non è smontare l’antifragilità, ma salvarla da un uso ingenuo o, ancor peggio, tossico.
Il primo chiarimento è semantico ma decisivo: “antifragile” non è un valore morale; è una proprietà. Una proprietà di un sistema. Come dire “convesso allo stress”: una risposta che trae beneficio dal disordine. Da qui pongo la domanda critica, più difficile e più utile: di chi è il beneficio? a spese di chi? su che orizzonte temporale? La distinzione tra parte e sistema fa tutta la differenza. Una cellula tumorale è antifragile, infatti essa muta, si adatta, diventa resistente alla terapia, ma lo fa contro il sistema che la ospita. I batteri sviluppano resistenza agli antibiotici: ammirevole dal punto di vista evolutivo, devastante da quello sanitario e umano. Anche un contenuto disinformativo può prosperare nelle smentite: più viene “confutato”, più circola, più diventa famoso. Localmente antifragile, sistemicamente corrosivo. Il criterio non è dunque “funziona sotto stress?”, ma “chi migliora con quello stress, e quanto peggiora il resto?”
Questo cambio di lettura si applica anche al dibattito su invecchiamento e longevità. L’argomento, nella sua forma più tagliente, nelle prime pagine del libro, suona così: se togli gli stress meccanici, come freddo/caldo, cammino/inerzia, carico/scarico, digiuno/ri-alimentazione, atrofizzi funzioni evolute grazie a quella variabilità. Concordo. Ma non basta. La longevità estesa è un prodotto moderno che ci espone a patologie che prima non arrivavano a manifestarsi, sì; eppure non ne segue che “morire prima” sia una terapia. Il punto non è l’età, ma la traiettoria: come ci arrivi ai settantacinque, ottanta, novant’anni. In un mondo di comfort cronico, il compito non è idolatrare la sofferenza, bensì ricodificare stress naturali entro routine sostenibili, accoppiandoli a recupero, nutrizione, luce, sonno, legami sociali. Non per romanticismo paleolitico, ma per ingegneria del corpo. È un’antifragilità che non feticizza il caos: lo dosa all’interno di una visione sistemica. Il corpo umano, come molte degli esempi portati qui, è un sistema complesso, dopotutto.
Fin qui parlavo di livello biologico e ambientale, il corpo, i batteri, i tumori. Ma è nella mente e nelle relazioni che il paradosso dell’antifragilità puntuale contro il sistema, si mostra in tutta la sua ambiguità. Prendiamo l’amore ossessivo: il rifiuto alimenta il desiderio, l’incertezza intensifica la passione. Localmente, quella dinamica “guadagna dal disordine”. Eppure, osservata come sistema-persona, è una fragilità che urla: dipendenza dall’altro, identità che si lega alla mancanza, regolazione emotiva in outsourcing. È un’antifragilità reattiva: cresce se e solo se la ferita resta aperta. Una fragilità profonda che è la base dell’antifragilità superficiale. Non integra ma si autoalimenta. Allo stesso modo, un manager che prospera in ogni emergenza, “salvando la baracca” a ripetizione, accumula status personale proprio perché l’organizzazione brucia. L’azienda non costruisce processi, non distribuisce competenze, non prepara step successivi. La forza del singolo dipende dalla crisi; la crisi, a sua volta, diventa struttura. È l’economia dell’incendio permanente: antifragile la carriera, fragile il sistema.
La versione sociale di questo meccanismo è ancora più insidiosa: certi movimenti o identità politiche si rafforzano ad ogni attacco esterno. La minaccia percepita fa coagulare l’appartenenza, tiene alta la mobilitazione, giustifica retoriche maciste. Ma quale società si lascia dietro? Più coesione intra gruppo, più polarizzazione inter gruppi, meno fiducia complessiva, questa è la base della polarizzazione che sfocia in estremismi. Qui l’antifragilità locale diventa dipendenza dal caos: quando la tensione cala, cala anche il senso del gruppo; allora la tensione va ricercata o provocata. È un ciclo di co-azione che “monetizza” lo stress e impoverisce il contesto.
Se questa diagnosi regge, cosa significa “evolvere verso un’antifragilità sana”? Intendo, qui, un’antifragilità sostenuta dal sistema, capace di beneficiare del disordine senza averne bisogno per funzionare. La differenza è sottile ma concreta. A livello individuale, si passa dall’adrenalina come stile di vita agli stressor programmati. Non sto evocando ascesi o eroismi, ma cicli: carico e scarico, lavoro profondo e recupero, esposizione al freddo e ristoro, digiuno circoscritto e nutrizione adeguata. L’atleta che viveva solo di gare estreme e picchi d’identità, quando reimposta la propria stagione su protocolli, sonno, alimentazione e relazioni, scopre non solo che la performance regge, ma che smette di dipendere dalla gara per sentirsi vivo. Lo stress torna informazione, non dipendenza. È una trasformazione semantica della stessa fatica: da prova di esistenza a strumento di evoluzione.
Nelle organizzazioni, l’analogo si chiama apprendimento distribuito. Non eroi, ma post-mortem onesti; non memoria tribale, ma documentazione; non dipendenze opache, ma rotazione dei ruoli; non “chi spegne più incendi vince”, ma “chi riduce la probabilità d’incendio crea valore”. L’aviazione civile è diventata così: ogni errore, per definizione costoso, è stato metabolizzato in checklist, standard, ridondanze. Anche l’ecosistema open source funziona così: ogni vulnerabilità, anziché essere bruciata per gloria privata, diventa patch, advisory, hardening condiviso. L’antifragilità non è dell’hacker solitario o del pompiere solitario: è del protocollo, è di un sistema interconnesso e decentralizzato. L’evento avverso resta avverso; la differenza è dove finisce il suo valore. Se si ferma sulla scrivania di un “uomo-chiave”, abbiamo fragilità mascherata. Se diventa patrimonio comune, abbiamo un sistema che si rafforza.
C’è anche un piano civico, troppo spesso dimenticato. Una comunità colpita da un’alluvione può esaltare gli “eroi dell’emergenza” e tornare identica a prima o persino più vulnerabile di prima. Oppure può trattare l’evento come un addestratore severo: mappare le aree a rischio, simulare evacuazioni, costruire fondi mutualistici, distribuire radio, formare residenti, aggiornare piani. Non “aspettare” il prossimo disastro per dare senso alla comunità, ma generarne in tempo di quiete. Che è poi il punto: rendere la calma carica di lavoro invisibile, così che l’urto trovi un sistema già in tensione elastica.
Qualcuno obietterà che tutto questo è meno brillante della narrativa “anti-fragile” pop ed eroica, più ruvida e iconica, in grado di creare storie da fumetto che piacciono a chiunque. È vero. Ma la brillantezza di una massima non deve dettare l’architettura di una vita. L’euristica serve a orientarsi; il design serve a durare. Proprio per questo ritengo utile una grammatica sobria di discernimento, non come elenco da spuntare, ma come abitudine mentale. Prima domanda: a che livello sto guardando? Se vedo un beneficio, è di una parte o dell’insieme? Seconda domanda: chi paga, quando, come? Nel breve un leader cresce, nel medio un reparto cede, nel lungo si spegne l’innovazione. Questa è davvero antifragilità? Terza domanda: che rapporto ho con il disordine? Lo uso o ne dipendo? Se tolgo il caos, reggo? Quarta domanda: sto aggiungendo interventi dove basterebbe togliere fragilità? La “via negativa” non è ascetismo: è l’esperienza pratica che il modo più economico di vincere è evitare la rovina. La prevenzione prima di tutto. Quinta domanda: qual è il mio barbell? Dov’è il nucleo anti-rovina (cassa, salute, relazioni, basi competenziali) e dove faccio esplorazione convessa in perdita limitata? Sesta domanda: come circola l’apprendimento? L’errore è capitale sociale o carriera individuale? Settima domanda: quale traiettoria sto costruendo? Non è solo dove arrivo; è come ci arrivo, e con quanta entropia gettata nell’ambiente.
Resta, in filigrana, un tema retorico: quanto è lecito semplificare per incidere? Io stesso sono diventato più critico proprio per effetto dell’allenamento allo stress: il corpo e la mente esposti con metodo fanno crescere anche la tolleranza alla complessità. È un paradosso utile: più divento antifragile bene, meno ho bisogno di messaggi urlati. Mi basta una bussola chiara e un terreno di pratica. E tuttavia, se l’euristica affilata è lo strappo che serve per iniziare, il passo successivo, quello maturo, è l’integrazione. L’antifragilità che voglio difendere non è quella che ha bisogno del disordine per respirare, per sopravvivere, ma quella che sa respirare anche senza e usa l’aria turbolenta per spingersi un po’ più in là. È un cambio di postura mentale: dal cercare l’urto al farsi trovare pronti. Dal vivere di crisi al vivere di protocolli che rendono la crisi il momento di test, per tutti.
La domanda finale, allora, non è “sono antifragile?”. È più scomoda e più vera: di quale disordine ho davvero bisogno, e quale sto segretamente coltivando per non guardare le mie mancanze? Se domani togli quel disordine, resti in piedi? Se sì, probabilmente stai costruendo un’antifragilità sostenuta dal sistema. Se no, forse hai solo imparato a fare surf su un’onda che, prima o poi, si infrange contro la riva sbagliata.
Riferimenti essenziali
Taleb, N. N. (2012). Antifragile: Things That Gain from Disorder.
Taleb, N. N. (2007). The Black Swan.
Prigogine, I. (1996). The End of Certainty.
Van der Kolk, B. (2014). The Body Keeps the Score.
Raymond, E. S. (1999). The Cathedral & the Bazaar.
Schein, E. H. (2010). Organizational Culture and Leadership.
(I riferimenti sono indicativi per contesto e genealogia delle idee; il testo integra anche esempi e osservazioni maturate nella pratica e vita personale su stress meccanici, traiettorie di longevità, dinamiche organizzative e design di protocolli di apprendimento.)
Data pubblicazione: 11 settembre 2025
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